sabato 19 maggio 2018

Oscar Romero proclamato santo durante il Sinodo

SALVATORE CERNUZIO
CITTÀ DEL VATICANO

Romero canonizzato in El Salvador? I salvadoregni ci sperano tutti che domani Papa Francesco possa dare questa notizia, al termine del Concistoro ordinario pubblico durante il quale comunicherà la data di alcune canonizzazioni, tra cui quella di Romero, appunto, e di Papa Paolo VI. Numerosi fedeli hanno pure inviato una lettera al Papa a riguardo, come rivelava nei giorni scorsi il cardinale Rosa Chavez, che di Romero fu il “braccio destro”. Per monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e postulatore della causa di canonizzazione dell’arcivescovo di San Salvador ucciso brutalmente mentre celebrava una messa, è «difficile» però che questo avvenga. Non tanto per motivi logistici ma perché «la canonizzazione, a differenza della beatificazione, dà una caratteristica universale alla testimonianza di Romero», come spiega a Vatican Insider. È quindi un evento che riguarda la Chiesa di tutto il mondo, non solo quella salvadoregna.

Ne
ssun annuncio “a sorpresa” domani allora?
 

«Capisco l’attesa, ma mentre la beatificazione elevava alla venerazione di tutto il paese questo “figlio” che ha vissuto la fede fino al martirio, con la canonizzazione si fa un ulteriore passo. La figura di Romero si pone tra quella dei Santi di tutta la Chiesa cattolica. Quindi è significativo che dalla piazza del San Salvador, dove migliaia di persone parteciparono nel 2015 alla beatificazione, si passi a Piazza San Pietro».

Una delusione per tutti quelli che già immaginavano una tappa di Bergoglio nel paese, magari a venerare la tomba dell’arcivescovo, magari durante la Gmg di Panama…
 


«È un discorso diverso. Direi anzi che è molto probabile che il Papa, prima di arrivare in Panama, faccia una sosta in El Salvador. Trovo peraltro significativo che il Santo Padre si rechi a venerare quello che è già “San Oscar Arnulfo Romero”. Me lo auguro davvero per i salvadoregni… Tra l’altro non dimentichiamo che i vescovi del Centramerica hanno chiesto e ottenuto che Romero fosse protettore della Gmg».

Lascerebbe intendere che la canonizzazione possa avvenire durante il Sinodo dei giovani di ottobre…
 


«Beh, penso proprio di si, insieme a quel Paolo VI che gli ha dato conforto e mostrato sempre una vicinanza straordinaria. D’altronde Romero è, a mio avviso, il primo martire del Concilio Vaticano II nel senso che è morto per aver reso concreta con la sua vita, nella sua carne, “l’opzione preferenziale per i poveri” auspicata dal Concilio. Ed è significativo che oggi sia un Papa che desidera una “Chiesa povera per i poveri” a proclamarlo santo. Un Papa, peraltro, latinoamericano».

I predecessori, invece, erano restii? La beatificazione è arrivata dopo 35 anni dalla morte…
 


«No, assolutamente mai restii. Anzi, posso testimoniare che dopo qualche iniziale problema Giovanni Paolo II fu un grande difensore di Romero. E Benedetto XVI di fatto sbloccò il processo di beatificazione».

Chi o cosa lo bloccava?
 


«Le opposizioni di tanti, nella Curia romana, nella Chiesa del suo paese, anche in alcuni ambienti politici. Lo hanno ostacolato in vita e lo hanno fatto anche con la sua testimonianza dopo la morte. D’altronde, non è un caso che Papa Francesco durante un’udienza ad un gruppo di pellegrini salvadoregni, qualche mese dopo la beatificazione, disse che Romero “è stato martirizzato prima e dopo la morte”».

Da cosa nasceva questo odio, se così vogliamo definirlo?


«Romero era ritenuto non un amico dei poveri, bensì l’esponente di una prospettiva politica di sinistra. Evidentemente chi l’ha ucciso nutriva un pregiudizio nei confronti della linea delineata dallo stesso Concilio. Negli anni sono arrivati chili di carte contro di lui, a volte in buona fede altre volte in cattiva coscienza. Scrivevano che faceva politica, che era seguace della teologia della liberazione. Lo accusavano anche per il suo carattere, troppo problematico … Tutte cose che hanno ovviamente frenato e rafforzato i “nemici” dentro il Paese, nell’episcopato e in Vaticano. Ora tutto ciò è stato messo a tacere».

Sull’assassinio di monsignor Romero è stato detto e scritto tanto. Ed è stata pure condotta un’inchiesta dalle Nazioni Unite. Ci sono dinamiche e dettagli rimasti ancora nascosti? Dal lavoro di postulazione è emerso qualcosa?
 


«Credo che sia stato tutto ben chiarito, anche nelle dinamiche della morte. Gli esecutori, questi “squadroni della morte” della destra estrema del paese con la sua uccisione brutale volevano far tacere la parola del vescovo che era la parola di tutto un popolo. Ma, davvero si può dire, dove ha abbondato il peccato oggi sovrabbonda la grazia».

In che senso?
 


«Nel senso che Romero parla quasi più oggi che quando era in vita. Il suo messaggio è arrivato e continua ad arrivare a tutti i cattolici, ma anche ai fedeli delle altre religioni, ai laici, al mondo civile. Nel 2000, la statua di monsignor Oscar è stata posta tra quelle dei martiri del ‘900 nella Cattedrale di Westminster. E le Nazioni Unite hanno indetto la Giornata mondiale per la libertà religiosa proprio il 24 marzo, il giorno del suo assassinio. Romero, poi, parla anche agli atei. Basti pensare che il miracolo che ha portato alla sua canonizzazione nasce dalla richiesta di un non credente: il marito della donna incinta che rischiava di morire con il suo bambino durante il parto. Quest’uomo, preso dalla disperazione, il giorno stesso della beatificazione vedendo quello che accadeva nella piazza e ascoltando le opere di quest’uomo decise di affidargli la moglie e il figlio, e iniziò a pregarlo. Inutile dire che sia la donna che il bambino si sono salvati e stanno benissimo».

Possiamo dire anche la figura di Romero dia lustro ad un’America latina che, tra le recenti vicende politiche ed ecclesiastiche (pensiamo alle dimissioni di oggi dei vescovi cileni), sta mostrando tutta la sua debolezza…


«Credo di dover dire invece che l’America Latina, attraverso la sua Chiesa, sia una terra profetica: è stata la prima ad aver accolto l’impulso del Concilio, ad aver scelto i poveri come testimonianza più efficace del Vangelo ai nostri giorni. È una Chiesa umile. E, mi permetto di dire, che anche il gesto dei vescovi cileni di oggi, in questa prospettiva, sia un segno di grande umiltà e di rispetto per quanto accaduto».

(La Stampa)

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