martedì 22 maggio 2018

L'amore è più forte della morte: monsignor Oscar Arnulfo Romero


Papa Francesco ha approvato il miracolo attribuito all’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero e ha quindi annunciato la sua canonizzazione il 14 ottobre 2018, a metà del Sinodo dei vescovi sui giovani. La canonizzazione di Romero è un dono straordinario a tutta la Chiesa cattolica di questo inizio di millennio. Lo è  anche per tutti i cristiani, come mostra l’attenzione della Chiesa anglicana che nel Duemila ha posto la statua di Mons. Romero nella facciata della cattedrale di Westmister accanto a quella di Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer. Ed è un dono anche alla società umana, come mostra la decisone delle Nazioni Unite di stabilire il 24 marzo – giorno dell’assassinio di Romero – “International Day for the right to the Truth Concerning Gross Human Rights and for the Dignity of Victims”.
E’ bene esprimere gratitudine a Benedetto XVI che ha seguito la causa fin dall’inizio e che il 20 dicembre del 2011 – poco più di un mese dalla sua rinuncia – ne ha deciso lo sblocco perché proseguisse il suo itinerario ordinario, passando dalla Congregazione per la Dottrina della Fede alla Congregazione per le Cause dei santi. E penso con gratitudine anche a san Giovanni Paolo II che volle ricordare mons. Romero nella celebrazione dei Nuovi Martiri durante il Giubileo del 2000, inserendone il nome, assente nel testo preparato dall’Ufficio Liturgico, nell’oremus finale. E siamo particolarmente grati a Papa Francesco per aver prima approvato il processo per la Beatificazione e poi per aver voluto unire in un’unica celebrazione Paolo VI e Romero che vedeva Montini come suo ispiratore e suo difensore. L’impegno della Congregazione per le Cause dei Santi – sotto la guida del cardinale Angelo Amato – è stato attento e sollecito.
Ora, vedendosi compiere il cammino non semplice della causa, è il tempo della gioia. Il sensus fidelium, in verità, non è mai venuto meno sia in El Salvador sia ovunque nel mondo, circa la santità di mons. Romero. Il suo martirio ha dato senso e forza a tante famiglie salvadoregne che avevano perso parenti e amici durante la guerra civile. Il suo ricordo divenne immediatamente il ricordo anche delle altre vittime, magari meno illustri, della violenza. Come Romero, che si era chinato, pieno di commozione, per vegliare il corpo di p. Rutilio Grande, molti salvadoregni non hanno cessato in questi anni di recarsi alla sua tomba per trarre forza dal loro arcivescovo martire.
Finalmente, dopo un lungo lavoro che ha visto non poche difficoltà sia per le opposizioni rispetto al pensiero e all’azione pastorale dell’arcivescovo sia per la situazione conflittuale che si era creata attorno alla sua figura, il processo è giunto alla sua conclusione. Romero possiamo considerarlo il primo santo della lunga schiera dei Nuovi Martiri contemporanei. Il 24 marzo – giorno della sua morte – è divenuto per decisione della Conferenza Episcopale Italiana “Giornata di preghiera per i missionari martiri”. Il mondo è molto cambiato da quel lontano 24 marzo 1980. C’è stato l’89 con il crollo del muro di Berlino, è venuto poi l’11 settembre del 2001, sono giunti i giorni drammatici di una risorgenza terroristica, mentre un clima di violenza e di rabbia sembra espandesi ovunque nel mondo. E tuttavia la memoria di Romero continua a muovere e a commuovere gli animi di tanti. La simbolicità della sua morte sull’altare mentre celebrava il Sacrificio Eucaristico lo ha reso un testimone particolarmente eloquente di quell’amore per i poveri che non conosce limiti. Quel pastore di un piccolo paese dell’America Centrale, è posto ora in alto tra i santi, come si può già vedere nella cupola della cattedrale di San Salvador, dove è stato dipinto accanto a San Giovanni XXIII e santa Madre Teresa di Calcutta: tre santi dell’amore. E non è senza significato che la sua canonizzazione avvenga proprio mentre sulla cattedra di Pietro vi è, per la prima volta nella storia, un papa latinoamericano che vuole una “Chiesa povera, per i poveri”. E’ una coincidenza provvidenziale. La Canonizzazione di Romero si iscrive in quella Chiesa “in uscita” che papa Francesco invita tutti a vivere.
Romero un pastore
Non c’è dubbio che l’azione pastorale di Romero affondi le sue radici nella testimonianza martiriale di padre Rutilio Grande. Questo gesuita era un uomo buono e generoso, diverso dai suoi confratelli di San Salvador per lo più intellettuali progressisti d’origine iberica. Rutilio, di origine salvadoregna, lasciò l’insegnamento universitario per andare fra i contadini in un piccolo villaggio, Aguilares, vivendo in una stanzetta con un letto, un comodino, un piccolo lume, una Bibbia. Qui aveva creato un movimento di comunità cristiane cui partecipavano migliaia di poveri campesinos.
Romero gli era molto amico e lo considerava un uomo di Dio. La sera di quel 12 marzo 1977 Romero vegliò tutta la notte davanti al corpo dell’amico e dei due contadini uccisi insieme a lui in un agguato. Era arcivescovo di San Salvador da pochi giorni, non aveva ancora preso confidenza con le sue funzioni. In quelle ore provò molta commozione vedendo l’amico ucciso e i tanti contadini che affollavano la chiesetta. Romero – confidò ad un amico un anno dopo – si rese conto che quei contadini erano rimasti orfani del loro “padre” e che ora toccava a lui, arcivescovo, prenderne il posto anche a costo della vita. In quella notte sentì – lo scrive più volte lo stesso Romero – una ispirazione divina a essere forte, ad assumere un’attitudine di fortaleza, mentre nel paese, segnato dall’ingiustizia sociale, aumentava la violenza: era la violenza dell’oligarchia contro i contadini, violenza dei militari contro la Chiesa che difendeva i poveri, ed anche violenza della guerriglia rivoluzionaria.
Secondo una vulgata diffusa, in quella notte Romero avrebbe avuto una conversione, passando da un formale orientamento tradizionalista all’amore per i poveri espresso anche nella politica. Romero, lo ha sempre negato. Diceva nel marzo 1979: “Non parlerei di conversione come molti dicono – si può intendere se si vuole – perché sempre ho avuto affetto per il popolo, per il povero. Prima di essere vescovo sono stato per ventidue anni sacerdote a San Miguel… Quando visitavo i cantoni sentivo un vero piacere nello stare con i poveri e aiutarli… Giungendo però a San Salvador, la stessa fedeltà cui avevo voluto ispirare il mio sacerdozio mi fece comprendere che il mio affetto verso i poveri, la mia fedeltà ai principi cristiani e l’adesione alla Santa Sede dovevano prendere una direzione un po’ diversa. Il 22 febbraio del 1977 presi possesso dell’Arcidiocesi e a quella data vi era una raffica di espulsioni di sacerdoti… Il 12 marzo del 1977 avvenne l’assassinio del p. Rutilio Grande… ebbe un forte impatto nella diocesi e mi aiutò a sentire fortaleza.”
Romero credette alla sua funzione di vescovo e di primate del paese e si sentiva responsabile della popolazione specie più povera: per questo si fece carico del sangue, del dolore, della violenza, denunciandone le cause nella sua carismatica predicazione domenicale seguita alla radio da tutta la nazione. Potremmo dire che fu una “conversione pastorale”, con l’assunzione da parte di Romero di una fortaleza indispensabile nella crisi in cui versava il paese. Si fece defensor civitatis secondo la tradizione dei Padri antichi della Chiesa, difese il clero perseguitato, protesse i poveri, affermò i diritti umani. Un rapporto non troppo favorevole all’azione pastorale di Romero notava: “Romero ha scelto il popolo e il popolo ha scelto Romero”. Ebbene, questa che a taluni appariva un’accusa, era in verità l’elogio più bello per un pastore. Romero “sentiva l’odore delle pecore” e queste se ne erano accorte. E’ commovente vedere ancora oggi i contadini parlare con lui inginocchiati davanti alla sua tomba! E’ stato un vescovo secondo la migliore tradizione arricchita dal grande insegnamento del Vaticano II.
Il clima di persecuzione era palpabile. Ma Romero divenne chiaramente il difensore dei poveri di fronte ad una repressione crudele. Dopo due anni di arcivescovado a San Salvador, Romero conta 30 preti perduti, tra uccisi, espulsi o richiamati per sfuggire alla morte. Gli squadroni della morte uccidono decine e decine di catechisti delle comunità di base, e molti fedeli di queste comunità scompaiono. A tutto questo si aggiungevano le profanazioni delle chiese e del Santissimo Sacramento. Insomma, con un clima di terrore si voleva scoraggiare anche il più piccolo desiderio di cambiamento della situazione. La Chiesa era la principale imputata e quindi quella maggiormente colpita. Romero resistette e accettò di dare la vita per difendere il suo popolo.
Ucciso sull’altare durante la Santa Messa
Fu ucciso sull’altare. In lui si voleva colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II. La sua morte – come mostra chiaramente l’accurato esame documentario – fu causata non da motivi semplicemente politici, ma dall’odio per una fede impastata della carità che non taceva di fronte alle ingiustizie che implacabilmente e crudelmente si abbattevano sui poveri e sui loro difensori. L’uccisione sull’altare – una morte senza dubbio più incerta visto che si doveva sparare da trenta metri rispetto ad una provocata da distanza ravvicinata – aveva una simbolicità che suonava come un terribile avvertimento per chiunque volesse proseguire su quella strada. Lo stesso san Giovanni Paolo II lo nota con efficacia: “: “lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino… E’ stato assassinato un vescovo della Chiesa di Dio mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucarestia”. E più volte disse: “Romero è nostro, è della Chiesa!”.
In effetti Monsignor Romero è stato un vescovo al servizio del Vangelo e della Chiesa, come emerge già dal suo motto episcopale: “sentire cum ecclesia”. E della preoccupazione fondamentale della Chiesa, la “salus animarum”, aveva fatto la sua priorità: restò tra la sua gente anche a costo della vita. L’immagine di Romero politico è lontana da tutta la sua storia e dalla sua formazione spirituale e culturale. E se Romero talora entrava nel campo della politica, lo faceva perché costretto e solo per  difendere la Chiesa e il popolo, perseguitati da un regime e da uomini spietati e bugiardi. Non era un intellettuale, un teologo, un organizzatore, un amministratore. Neppure un riformatore. E tanto meno un politico, come qualcuno ha voluto vederlo, strumentalizzando il suo nome a propri fini. Romero era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, un uomo di obbedienza e di amore per la gente. In una omelia del 17 febbraio del 1980 dice con chiarezza: “quello che cerco di fare non è politica. E se per necessità del momento sto illuminando la politica della mia patria, è perché sono pastore, è a partire dal Vangelo, è una luce che deve illuminare le strade del paese e dare il suo contributo, come Chiesa; quel contributo che, proprio perché Chiesa, deve dare”.
Romero e la scelta dei poveri

Romero da sempre ha amato i poveri. Giovanissimo sacerdote a San Miguel veniva accusato di comunismo perché chiedeva ai ricchi di dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè. Diceva loro che, agendo in quel modo, non solo andavano contro la giustizia, ma erano essi stessi ad aprire le porte al comunismo. Tutti coloro che lo hanno conosciuto ancora semplice sacerdote ricordano la sua commozione e la sua tenerezza verso i poveri che incontrava. Particolare impressione fece il suo interessamento per i bambini lustrascarpe di San Miguel che lo portò anche ad organizzare anche una mensa per loro. Notoria poi era la generosità. Un piccolo episodio mostra la sua “esagerazione”, come qualcuno diceva. Una volta ricevette una gallina da mangiare, lungo la strada una donna chiedeva aiuto e lui subito gliela diede, non badando alle rimostranze dell’autista che gli diceva che in episcopio non c’era nulla da mangiare. Certo frequentava anche i ricchi, ma chiedeva loro di aiutare i poveri e la Chiesa, come una via per salvare la loro anima.
Romero comprese sempre più chiaramente che per essere il pastore di tutti doveva iniziare dai poveri. Mettere i poveri al centro delle preoccupazioni pastorali della Chiesa e quindi anche di tutti i cristiani, compresi i ricchi, era la via nuova della pastorale. L’amore preferenziale per i poveri non solo non attutiva l’amore di Romero per il suo paese, al contrario lo sosteneva. E’ stato il vescovo defensor pauperum secondo l’antica tradizione dei Padri della Chiesa. In tal senso Romero non era un uomo di parte, anche se ad alcuni poteva apparire tale, bensì un pastore che voleva il bene comune di tutti, ma a partire, appunto, dai poveri. Non ha mai cessato di cercare le vie per la pacificazione del paese.
Negli ultimi mesi di vita, alcuni settori progressisti della Chiesa, che prima lo esaltavano, lo criticarono duramente per avere sostenuto una nuova Giunta di governo, con militari riformisti e democristiani. Romero sapeva che il paese stava precipitando nella guerra civile. E voleva evitarla in ogni modo. Molti, invece, avevano categorie mentali di rivoluzione o massimaliste per cui qualsiasi potere costituito doveva essere rifiutato. Le riforme erano stimolate da Romero, ma la sinistra le riteneva un inganno perché esse avrebbero abbassato la tensione rivoluzionaria. Romero pensava diversamente. Vedendo le sofferenze del popolo si preoccupava di lenirle in ogni modo, anche con la carità individuale, con la elemosina, oppure raccomandando le persone per il lavoro e aiutando materialmente i bisognosi…Altri cattolici pensavano, invece, che questo tipo di carità non solo non serviva, ma era addirittura nociva perché sosteneva di fatto un sistema politico ingiusto.
Romero, uomo di Dio e della Chiesa
Romero era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, di obbedienza e di amore per la gente. Pregava molto: si arrabbiava se nelle prime ore del mattino, mentre pregava, lo interrompevano. Ed era severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni. Ebbe una vita spirituale “lineare”, pur con un carattere non facile, rigoroso con se stesso, intransigente, tormentato. Ma nella preghiera trovava riposo, pace e forza. Quando doveva prendere decisioni complicate, difficili, si ritirava in preghiera.
Fu un vescovo fedelissimo al magistero. Nelle sue carte emerge chiara la familiarità con i documenti del Vaticano II, di Medellin, di Puebla, della dottrina sociale della Chiesa e in genere gli altri testi pontifici. Ho potuto fare l’elenco delle opere della sua biblioteca: gran parte è occupata dai testi del Magistero. Nelle carte dell’archivio sono conservati i discorsi che Romero scriveva per due nunzi quando questi dovevano spiegare i testi conciliari. Il cardinale Cassidy racconta che nel 1966 con Romero e qualche altro sacerdote facevano spesso giornate di approfondimento sui testi del Vaticano II. Romero si era costruito uno amplissimo schedario di citazioni (circa 5000 schede) per predicare, tratte soprattutto dal Magistero. Venti giorni prima di morire, il 2 marzo 1980, in una omelia domenicale afferma: “Fratelli, la gloria più grande di un pastore è vivere in comunione con il papa. Per me il segreto della verità e della efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa. E quando vedo nel suo magistero pensieri e gesti simili a quelli di cui ha bisogno la nostra Chiesa, mi riempio di gioia”.
Molte volte si dice che Romero era subornato dalla teologia della liberazione. Un giornalista gli chiese: “Lei è d’accordo con la teologia della liberazione?” Romero rispose: “Si certo. Ma ci sono due teologie della liberazione. Una è quella che vede la liberazione solo come liberazione materiale. L’altra è quella di Paolo VI . Io sono con Paolo VI”. Ed è significativa la testimonianza che ho potuto raccogliere da padre Gustavo Gutierrez: “Monsignor Romero è stato anzitutto un pastore, questa è la prima condizione che appariva fin dal primo contatto con lui. È stato un testimone autentico della verità evangelica, con una formazione spirituale e teologica che possiamo dire tradizionale. Non era una persona che stava alla mercé delle opinioni altrui, non era manipolabile. La sua fede lo portava a discernere i punti di vista e le realtà che gli si presentavano. È stato un uomo libero. La ragione di questa libertà stava nel suo senso di Dio, che gli permise di conservare la serenità anche davanti alla morte”.

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