martedì 22 maggio 2018

L'amore è più forte della morte: monsignor Oscar Arnulfo Romero


Papa Francesco ha approvato il miracolo attribuito all’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero e ha quindi annunciato la sua canonizzazione il 14 ottobre 2018, a metà del Sinodo dei vescovi sui giovani. La canonizzazione di Romero è un dono straordinario a tutta la Chiesa cattolica di questo inizio di millennio. Lo è  anche per tutti i cristiani, come mostra l’attenzione della Chiesa anglicana che nel Duemila ha posto la statua di Mons. Romero nella facciata della cattedrale di Westmister accanto a quella di Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer. Ed è un dono anche alla società umana, come mostra la decisone delle Nazioni Unite di stabilire il 24 marzo – giorno dell’assassinio di Romero – “International Day for the right to the Truth Concerning Gross Human Rights and for the Dignity of Victims”.
E’ bene esprimere gratitudine a Benedetto XVI che ha seguito la causa fin dall’inizio e che il 20 dicembre del 2011 – poco più di un mese dalla sua rinuncia – ne ha deciso lo sblocco perché proseguisse il suo itinerario ordinario, passando dalla Congregazione per la Dottrina della Fede alla Congregazione per le Cause dei santi. E penso con gratitudine anche a san Giovanni Paolo II che volle ricordare mons. Romero nella celebrazione dei Nuovi Martiri durante il Giubileo del 2000, inserendone il nome, assente nel testo preparato dall’Ufficio Liturgico, nell’oremus finale. E siamo particolarmente grati a Papa Francesco per aver prima approvato il processo per la Beatificazione e poi per aver voluto unire in un’unica celebrazione Paolo VI e Romero che vedeva Montini come suo ispiratore e suo difensore. L’impegno della Congregazione per le Cause dei Santi – sotto la guida del cardinale Angelo Amato – è stato attento e sollecito.
Ora, vedendosi compiere il cammino non semplice della causa, è il tempo della gioia. Il sensus fidelium, in verità, non è mai venuto meno sia in El Salvador sia ovunque nel mondo, circa la santità di mons. Romero. Il suo martirio ha dato senso e forza a tante famiglie salvadoregne che avevano perso parenti e amici durante la guerra civile. Il suo ricordo divenne immediatamente il ricordo anche delle altre vittime, magari meno illustri, della violenza. Come Romero, che si era chinato, pieno di commozione, per vegliare il corpo di p. Rutilio Grande, molti salvadoregni non hanno cessato in questi anni di recarsi alla sua tomba per trarre forza dal loro arcivescovo martire.
Finalmente, dopo un lungo lavoro che ha visto non poche difficoltà sia per le opposizioni rispetto al pensiero e all’azione pastorale dell’arcivescovo sia per la situazione conflittuale che si era creata attorno alla sua figura, il processo è giunto alla sua conclusione. Romero possiamo considerarlo il primo santo della lunga schiera dei Nuovi Martiri contemporanei. Il 24 marzo – giorno della sua morte – è divenuto per decisione della Conferenza Episcopale Italiana “Giornata di preghiera per i missionari martiri”. Il mondo è molto cambiato da quel lontano 24 marzo 1980. C’è stato l’89 con il crollo del muro di Berlino, è venuto poi l’11 settembre del 2001, sono giunti i giorni drammatici di una risorgenza terroristica, mentre un clima di violenza e di rabbia sembra espandesi ovunque nel mondo. E tuttavia la memoria di Romero continua a muovere e a commuovere gli animi di tanti. La simbolicità della sua morte sull’altare mentre celebrava il Sacrificio Eucaristico lo ha reso un testimone particolarmente eloquente di quell’amore per i poveri che non conosce limiti. Quel pastore di un piccolo paese dell’America Centrale, è posto ora in alto tra i santi, come si può già vedere nella cupola della cattedrale di San Salvador, dove è stato dipinto accanto a San Giovanni XXIII e santa Madre Teresa di Calcutta: tre santi dell’amore. E non è senza significato che la sua canonizzazione avvenga proprio mentre sulla cattedra di Pietro vi è, per la prima volta nella storia, un papa latinoamericano che vuole una “Chiesa povera, per i poveri”. E’ una coincidenza provvidenziale. La Canonizzazione di Romero si iscrive in quella Chiesa “in uscita” che papa Francesco invita tutti a vivere.
Romero un pastore
Non c’è dubbio che l’azione pastorale di Romero affondi le sue radici nella testimonianza martiriale di padre Rutilio Grande. Questo gesuita era un uomo buono e generoso, diverso dai suoi confratelli di San Salvador per lo più intellettuali progressisti d’origine iberica. Rutilio, di origine salvadoregna, lasciò l’insegnamento universitario per andare fra i contadini in un piccolo villaggio, Aguilares, vivendo in una stanzetta con un letto, un comodino, un piccolo lume, una Bibbia. Qui aveva creato un movimento di comunità cristiane cui partecipavano migliaia di poveri campesinos.
Romero gli era molto amico e lo considerava un uomo di Dio. La sera di quel 12 marzo 1977 Romero vegliò tutta la notte davanti al corpo dell’amico e dei due contadini uccisi insieme a lui in un agguato. Era arcivescovo di San Salvador da pochi giorni, non aveva ancora preso confidenza con le sue funzioni. In quelle ore provò molta commozione vedendo l’amico ucciso e i tanti contadini che affollavano la chiesetta. Romero – confidò ad un amico un anno dopo – si rese conto che quei contadini erano rimasti orfani del loro “padre” e che ora toccava a lui, arcivescovo, prenderne il posto anche a costo della vita. In quella notte sentì – lo scrive più volte lo stesso Romero – una ispirazione divina a essere forte, ad assumere un’attitudine di fortaleza, mentre nel paese, segnato dall’ingiustizia sociale, aumentava la violenza: era la violenza dell’oligarchia contro i contadini, violenza dei militari contro la Chiesa che difendeva i poveri, ed anche violenza della guerriglia rivoluzionaria.
Secondo una vulgata diffusa, in quella notte Romero avrebbe avuto una conversione, passando da un formale orientamento tradizionalista all’amore per i poveri espresso anche nella politica. Romero, lo ha sempre negato. Diceva nel marzo 1979: “Non parlerei di conversione come molti dicono – si può intendere se si vuole – perché sempre ho avuto affetto per il popolo, per il povero. Prima di essere vescovo sono stato per ventidue anni sacerdote a San Miguel… Quando visitavo i cantoni sentivo un vero piacere nello stare con i poveri e aiutarli… Giungendo però a San Salvador, la stessa fedeltà cui avevo voluto ispirare il mio sacerdozio mi fece comprendere che il mio affetto verso i poveri, la mia fedeltà ai principi cristiani e l’adesione alla Santa Sede dovevano prendere una direzione un po’ diversa. Il 22 febbraio del 1977 presi possesso dell’Arcidiocesi e a quella data vi era una raffica di espulsioni di sacerdoti… Il 12 marzo del 1977 avvenne l’assassinio del p. Rutilio Grande… ebbe un forte impatto nella diocesi e mi aiutò a sentire fortaleza.”
Romero credette alla sua funzione di vescovo e di primate del paese e si sentiva responsabile della popolazione specie più povera: per questo si fece carico del sangue, del dolore, della violenza, denunciandone le cause nella sua carismatica predicazione domenicale seguita alla radio da tutta la nazione. Potremmo dire che fu una “conversione pastorale”, con l’assunzione da parte di Romero di una fortaleza indispensabile nella crisi in cui versava il paese. Si fece defensor civitatis secondo la tradizione dei Padri antichi della Chiesa, difese il clero perseguitato, protesse i poveri, affermò i diritti umani. Un rapporto non troppo favorevole all’azione pastorale di Romero notava: “Romero ha scelto il popolo e il popolo ha scelto Romero”. Ebbene, questa che a taluni appariva un’accusa, era in verità l’elogio più bello per un pastore. Romero “sentiva l’odore delle pecore” e queste se ne erano accorte. E’ commovente vedere ancora oggi i contadini parlare con lui inginocchiati davanti alla sua tomba! E’ stato un vescovo secondo la migliore tradizione arricchita dal grande insegnamento del Vaticano II.
Il clima di persecuzione era palpabile. Ma Romero divenne chiaramente il difensore dei poveri di fronte ad una repressione crudele. Dopo due anni di arcivescovado a San Salvador, Romero conta 30 preti perduti, tra uccisi, espulsi o richiamati per sfuggire alla morte. Gli squadroni della morte uccidono decine e decine di catechisti delle comunità di base, e molti fedeli di queste comunità scompaiono. A tutto questo si aggiungevano le profanazioni delle chiese e del Santissimo Sacramento. Insomma, con un clima di terrore si voleva scoraggiare anche il più piccolo desiderio di cambiamento della situazione. La Chiesa era la principale imputata e quindi quella maggiormente colpita. Romero resistette e accettò di dare la vita per difendere il suo popolo.
Ucciso sull’altare durante la Santa Messa
Fu ucciso sull’altare. In lui si voleva colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II. La sua morte – come mostra chiaramente l’accurato esame documentario – fu causata non da motivi semplicemente politici, ma dall’odio per una fede impastata della carità che non taceva di fronte alle ingiustizie che implacabilmente e crudelmente si abbattevano sui poveri e sui loro difensori. L’uccisione sull’altare – una morte senza dubbio più incerta visto che si doveva sparare da trenta metri rispetto ad una provocata da distanza ravvicinata – aveva una simbolicità che suonava come un terribile avvertimento per chiunque volesse proseguire su quella strada. Lo stesso san Giovanni Paolo II lo nota con efficacia: “: “lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino… E’ stato assassinato un vescovo della Chiesa di Dio mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucarestia”. E più volte disse: “Romero è nostro, è della Chiesa!”.
In effetti Monsignor Romero è stato un vescovo al servizio del Vangelo e della Chiesa, come emerge già dal suo motto episcopale: “sentire cum ecclesia”. E della preoccupazione fondamentale della Chiesa, la “salus animarum”, aveva fatto la sua priorità: restò tra la sua gente anche a costo della vita. L’immagine di Romero politico è lontana da tutta la sua storia e dalla sua formazione spirituale e culturale. E se Romero talora entrava nel campo della politica, lo faceva perché costretto e solo per  difendere la Chiesa e il popolo, perseguitati da un regime e da uomini spietati e bugiardi. Non era un intellettuale, un teologo, un organizzatore, un amministratore. Neppure un riformatore. E tanto meno un politico, come qualcuno ha voluto vederlo, strumentalizzando il suo nome a propri fini. Romero era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, un uomo di obbedienza e di amore per la gente. In una omelia del 17 febbraio del 1980 dice con chiarezza: “quello che cerco di fare non è politica. E se per necessità del momento sto illuminando la politica della mia patria, è perché sono pastore, è a partire dal Vangelo, è una luce che deve illuminare le strade del paese e dare il suo contributo, come Chiesa; quel contributo che, proprio perché Chiesa, deve dare”.
Romero e la scelta dei poveri

Romero da sempre ha amato i poveri. Giovanissimo sacerdote a San Miguel veniva accusato di comunismo perché chiedeva ai ricchi di dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè. Diceva loro che, agendo in quel modo, non solo andavano contro la giustizia, ma erano essi stessi ad aprire le porte al comunismo. Tutti coloro che lo hanno conosciuto ancora semplice sacerdote ricordano la sua commozione e la sua tenerezza verso i poveri che incontrava. Particolare impressione fece il suo interessamento per i bambini lustrascarpe di San Miguel che lo portò anche ad organizzare anche una mensa per loro. Notoria poi era la generosità. Un piccolo episodio mostra la sua “esagerazione”, come qualcuno diceva. Una volta ricevette una gallina da mangiare, lungo la strada una donna chiedeva aiuto e lui subito gliela diede, non badando alle rimostranze dell’autista che gli diceva che in episcopio non c’era nulla da mangiare. Certo frequentava anche i ricchi, ma chiedeva loro di aiutare i poveri e la Chiesa, come una via per salvare la loro anima.
Romero comprese sempre più chiaramente che per essere il pastore di tutti doveva iniziare dai poveri. Mettere i poveri al centro delle preoccupazioni pastorali della Chiesa e quindi anche di tutti i cristiani, compresi i ricchi, era la via nuova della pastorale. L’amore preferenziale per i poveri non solo non attutiva l’amore di Romero per il suo paese, al contrario lo sosteneva. E’ stato il vescovo defensor pauperum secondo l’antica tradizione dei Padri della Chiesa. In tal senso Romero non era un uomo di parte, anche se ad alcuni poteva apparire tale, bensì un pastore che voleva il bene comune di tutti, ma a partire, appunto, dai poveri. Non ha mai cessato di cercare le vie per la pacificazione del paese.
Negli ultimi mesi di vita, alcuni settori progressisti della Chiesa, che prima lo esaltavano, lo criticarono duramente per avere sostenuto una nuova Giunta di governo, con militari riformisti e democristiani. Romero sapeva che il paese stava precipitando nella guerra civile. E voleva evitarla in ogni modo. Molti, invece, avevano categorie mentali di rivoluzione o massimaliste per cui qualsiasi potere costituito doveva essere rifiutato. Le riforme erano stimolate da Romero, ma la sinistra le riteneva un inganno perché esse avrebbero abbassato la tensione rivoluzionaria. Romero pensava diversamente. Vedendo le sofferenze del popolo si preoccupava di lenirle in ogni modo, anche con la carità individuale, con la elemosina, oppure raccomandando le persone per il lavoro e aiutando materialmente i bisognosi…Altri cattolici pensavano, invece, che questo tipo di carità non solo non serviva, ma era addirittura nociva perché sosteneva di fatto un sistema politico ingiusto.
Romero, uomo di Dio e della Chiesa
Romero era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, di obbedienza e di amore per la gente. Pregava molto: si arrabbiava se nelle prime ore del mattino, mentre pregava, lo interrompevano. Ed era severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni. Ebbe una vita spirituale “lineare”, pur con un carattere non facile, rigoroso con se stesso, intransigente, tormentato. Ma nella preghiera trovava riposo, pace e forza. Quando doveva prendere decisioni complicate, difficili, si ritirava in preghiera.
Fu un vescovo fedelissimo al magistero. Nelle sue carte emerge chiara la familiarità con i documenti del Vaticano II, di Medellin, di Puebla, della dottrina sociale della Chiesa e in genere gli altri testi pontifici. Ho potuto fare l’elenco delle opere della sua biblioteca: gran parte è occupata dai testi del Magistero. Nelle carte dell’archivio sono conservati i discorsi che Romero scriveva per due nunzi quando questi dovevano spiegare i testi conciliari. Il cardinale Cassidy racconta che nel 1966 con Romero e qualche altro sacerdote facevano spesso giornate di approfondimento sui testi del Vaticano II. Romero si era costruito uno amplissimo schedario di citazioni (circa 5000 schede) per predicare, tratte soprattutto dal Magistero. Venti giorni prima di morire, il 2 marzo 1980, in una omelia domenicale afferma: “Fratelli, la gloria più grande di un pastore è vivere in comunione con il papa. Per me il segreto della verità e della efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa. E quando vedo nel suo magistero pensieri e gesti simili a quelli di cui ha bisogno la nostra Chiesa, mi riempio di gioia”.
Molte volte si dice che Romero era subornato dalla teologia della liberazione. Un giornalista gli chiese: “Lei è d’accordo con la teologia della liberazione?” Romero rispose: “Si certo. Ma ci sono due teologie della liberazione. Una è quella che vede la liberazione solo come liberazione materiale. L’altra è quella di Paolo VI . Io sono con Paolo VI”. Ed è significativa la testimonianza che ho potuto raccogliere da padre Gustavo Gutierrez: “Monsignor Romero è stato anzitutto un pastore, questa è la prima condizione che appariva fin dal primo contatto con lui. È stato un testimone autentico della verità evangelica, con una formazione spirituale e teologica che possiamo dire tradizionale. Non era una persona che stava alla mercé delle opinioni altrui, non era manipolabile. La sua fede lo portava a discernere i punti di vista e le realtà che gli si presentavano. È stato un uomo libero. La ragione di questa libertà stava nel suo senso di Dio, che gli permise di conservare la serenità anche davanti alla morte”.

sabato 19 maggio 2018

Oscar Romero proclamato santo durante il Sinodo

SALVATORE CERNUZIO
CITTÀ DEL VATICANO

Romero canonizzato in El Salvador? I salvadoregni ci sperano tutti che domani Papa Francesco possa dare questa notizia, al termine del Concistoro ordinario pubblico durante il quale comunicherà la data di alcune canonizzazioni, tra cui quella di Romero, appunto, e di Papa Paolo VI. Numerosi fedeli hanno pure inviato una lettera al Papa a riguardo, come rivelava nei giorni scorsi il cardinale Rosa Chavez, che di Romero fu il “braccio destro”. Per monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e postulatore della causa di canonizzazione dell’arcivescovo di San Salvador ucciso brutalmente mentre celebrava una messa, è «difficile» però che questo avvenga. Non tanto per motivi logistici ma perché «la canonizzazione, a differenza della beatificazione, dà una caratteristica universale alla testimonianza di Romero», come spiega a Vatican Insider. È quindi un evento che riguarda la Chiesa di tutto il mondo, non solo quella salvadoregna.

Ne
ssun annuncio “a sorpresa” domani allora?
 

«Capisco l’attesa, ma mentre la beatificazione elevava alla venerazione di tutto il paese questo “figlio” che ha vissuto la fede fino al martirio, con la canonizzazione si fa un ulteriore passo. La figura di Romero si pone tra quella dei Santi di tutta la Chiesa cattolica. Quindi è significativo che dalla piazza del San Salvador, dove migliaia di persone parteciparono nel 2015 alla beatificazione, si passi a Piazza San Pietro».

Una delusione per tutti quelli che già immaginavano una tappa di Bergoglio nel paese, magari a venerare la tomba dell’arcivescovo, magari durante la Gmg di Panama…
 


«È un discorso diverso. Direi anzi che è molto probabile che il Papa, prima di arrivare in Panama, faccia una sosta in El Salvador. Trovo peraltro significativo che il Santo Padre si rechi a venerare quello che è già “San Oscar Arnulfo Romero”. Me lo auguro davvero per i salvadoregni… Tra l’altro non dimentichiamo che i vescovi del Centramerica hanno chiesto e ottenuto che Romero fosse protettore della Gmg».

Lascerebbe intendere che la canonizzazione possa avvenire durante il Sinodo dei giovani di ottobre…
 


«Beh, penso proprio di si, insieme a quel Paolo VI che gli ha dato conforto e mostrato sempre una vicinanza straordinaria. D’altronde Romero è, a mio avviso, il primo martire del Concilio Vaticano II nel senso che è morto per aver reso concreta con la sua vita, nella sua carne, “l’opzione preferenziale per i poveri” auspicata dal Concilio. Ed è significativo che oggi sia un Papa che desidera una “Chiesa povera per i poveri” a proclamarlo santo. Un Papa, peraltro, latinoamericano».

I predecessori, invece, erano restii? La beatificazione è arrivata dopo 35 anni dalla morte…
 


«No, assolutamente mai restii. Anzi, posso testimoniare che dopo qualche iniziale problema Giovanni Paolo II fu un grande difensore di Romero. E Benedetto XVI di fatto sbloccò il processo di beatificazione».

Chi o cosa lo bloccava?
 


«Le opposizioni di tanti, nella Curia romana, nella Chiesa del suo paese, anche in alcuni ambienti politici. Lo hanno ostacolato in vita e lo hanno fatto anche con la sua testimonianza dopo la morte. D’altronde, non è un caso che Papa Francesco durante un’udienza ad un gruppo di pellegrini salvadoregni, qualche mese dopo la beatificazione, disse che Romero “è stato martirizzato prima e dopo la morte”».

Da cosa nasceva questo odio, se così vogliamo definirlo?


«Romero era ritenuto non un amico dei poveri, bensì l’esponente di una prospettiva politica di sinistra. Evidentemente chi l’ha ucciso nutriva un pregiudizio nei confronti della linea delineata dallo stesso Concilio. Negli anni sono arrivati chili di carte contro di lui, a volte in buona fede altre volte in cattiva coscienza. Scrivevano che faceva politica, che era seguace della teologia della liberazione. Lo accusavano anche per il suo carattere, troppo problematico … Tutte cose che hanno ovviamente frenato e rafforzato i “nemici” dentro il Paese, nell’episcopato e in Vaticano. Ora tutto ciò è stato messo a tacere».

Sull’assassinio di monsignor Romero è stato detto e scritto tanto. Ed è stata pure condotta un’inchiesta dalle Nazioni Unite. Ci sono dinamiche e dettagli rimasti ancora nascosti? Dal lavoro di postulazione è emerso qualcosa?
 


«Credo che sia stato tutto ben chiarito, anche nelle dinamiche della morte. Gli esecutori, questi “squadroni della morte” della destra estrema del paese con la sua uccisione brutale volevano far tacere la parola del vescovo che era la parola di tutto un popolo. Ma, davvero si può dire, dove ha abbondato il peccato oggi sovrabbonda la grazia».

In che senso?
 


«Nel senso che Romero parla quasi più oggi che quando era in vita. Il suo messaggio è arrivato e continua ad arrivare a tutti i cattolici, ma anche ai fedeli delle altre religioni, ai laici, al mondo civile. Nel 2000, la statua di monsignor Oscar è stata posta tra quelle dei martiri del ‘900 nella Cattedrale di Westminster. E le Nazioni Unite hanno indetto la Giornata mondiale per la libertà religiosa proprio il 24 marzo, il giorno del suo assassinio. Romero, poi, parla anche agli atei. Basti pensare che il miracolo che ha portato alla sua canonizzazione nasce dalla richiesta di un non credente: il marito della donna incinta che rischiava di morire con il suo bambino durante il parto. Quest’uomo, preso dalla disperazione, il giorno stesso della beatificazione vedendo quello che accadeva nella piazza e ascoltando le opere di quest’uomo decise di affidargli la moglie e il figlio, e iniziò a pregarlo. Inutile dire che sia la donna che il bambino si sono salvati e stanno benissimo».

Possiamo dire anche la figura di Romero dia lustro ad un’America latina che, tra le recenti vicende politiche ed ecclesiastiche (pensiamo alle dimissioni di oggi dei vescovi cileni), sta mostrando tutta la sua debolezza…


«Credo di dover dire invece che l’America Latina, attraverso la sua Chiesa, sia una terra profetica: è stata la prima ad aver accolto l’impulso del Concilio, ad aver scelto i poveri come testimonianza più efficace del Vangelo ai nostri giorni. È una Chiesa umile. E, mi permetto di dire, che anche il gesto dei vescovi cileni di oggi, in questa prospettiva, sia un segno di grande umiltà e di rispetto per quanto accaduto».

(La Stampa)

martedì 27 marzo 2018

Romero dijo: «Soy de la teología de la liberación de Pablo VI, no de otra», relata el obispo Paglia



El arzobispo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consejo para la Familia y Postulador para la causa de beatificación del arzobispo salvadoreño Óscar Arnulfo Romero ha explicado a Héctor Silva Ávalos, del diario La Prensa Gráfica, las dificultades de este proceso. Él mismo ha confirmado que la ceremonia tendrá lugar en El Salvador el 23 de mayo.

Monseñor Paglia y los historiadores y teólogos que contribuyeron a la causa de postulación habían desvanecido la acusación de que el mensaje y enseñanza de Romero tenían desviaciones teológicas y habían, además, hecho lo propio con el otro argumento de los opositores: que el arzobispo había incurrido en “errores sociales”.

El postulador insistió en que el mensaje de Óscar Arnulfo Romero estuvo basado siempre en el Evangelio, y no en el marxismo como argumentaban sus opositores

De este tema Paglia habló muchas veces con el entonces Prefecto para la Defensa de la Fe, el cardenal alemán Joseph Ratzinger, quien “quedó favorablemente impresionado”, dice.

Agotados los argumentos, quienes dentro de la Iglesia católica no querían ver al arzobispo asesinado como beato dijeron que, a pesar de todo, no era oportuno continuar con el proceso porque la figura de Romero era nociva para la unidad de El Salvador. Paglia dice que ante una objeción tan abstracta llegó a sentirse en “arenas movedizas”, pero nunca decayó.

En el fondo, la objeción de los opositores se basaba en la idea de que el asesinato de Monseñor Romero había sido consecuencia de sus filias políticas: “Escogió un bando y por eso lo mataron”, resume el postulador la línea de los detractores.

Paglia sostuvo siempre que no fue así: “En realidad, Romero, según resulta de la documentación, fue asesinado no por motivos inmediatamente políticos sino por seguir a una Iglesia tal como había salido del Vaticano II, y como la había vivido el episcopado latinoamericano, con una opción preferencial por los pobres”.

Más aún, el postulador se mantuvo firme en su idea de que el asesinato del arzobispo había sido motivado por el odio de sus asesinos a la fe. Para hacer valer esa posición, Paglia y su equipo tuvieron que demostrar que la Iglesia católica de El Salvador era objeto de persecución, algo que lograron, dice, luego de “una investigación histórica, con documentación real”.

Cuando el papa Juan Pablo II agonizaba en el Vaticano, Vincenzo Paglia estaba en El Salvador para conmemorar el XXV aniversario del martirio de Romero. Voló a Roma de emergencia.

Desde el principio, y durante todo el papado de Ratzinger, ascendido a papa con el nombre de Benedicto XVI tras la muerte de Juan Pablo II, monseñor Paglia mantuvo firme su tesis del martirio por odio a la fe y pidió al nuevo pontífice, quien lo había nombrado presidente del Pontificio Consejo para la Familia, que la causa de Romero siguiera su curso.

Cinco días antes de la Navidad de 2012, Benedicto XVI anunció a Paglia que la causa del arzobispo salvadoreño regresaba de la Congregación para la Doctrina de la Fe, donde había estado bloqueada, a la Congregación para las Causas de los Santos.

Benedicto XVI abdicó y el colegio cardenalicio escogió al argentino Jorge Mario Bergoglio como el nuevo sucesor de Pedro en la silla papal. El primer pontífice latinoamericano, quien asumió con el nombre de Francisco, ha sido esencial para la causa de Romero.

A la postre, la comisión de teólogos de la Congregación para la Causa de los Santos dio la razón a la tesis del postulador en forma unánime: Romero es un mártir de la Iglesia católica, asesinado por odio a la fe.

Hoy, monseñor Vincenzo Paglia explica, desde su fe, el desenlace del proceso, detenido, refutado, obstaculizado por esos a quienes en Roma llaman “los opositores”.

Hoy me puedo explicar en profundidad el porqué de tantos atrasos: Dios esperaba al papa Francisco. Dios ha escrito esta página con las líneas torcidas de los opositores. Si pudiera decirlo con una broma irreverente, el papa Francisco necesitaba también de alguien que lo apoyara en el paraíso, porque Romero vivió plenamente la afirmación del papa Francisco: una Iglesia pobre para los pobres”, dice Paglia.



-¿La del martirio por odio a la fe fue siempre su perspectiva?
-Nunca me moví de esta perspectiva. No obstante que los detractores de la causa de Romero hubieran querido cambiarlo a que fuese la beatificación por virtudes heroicas, y no por martirio. Quienes sostenían la tesis de las virtudes heroicas pensaban que era imposible defender una causa por martirio por odio a la fe, porque esto supone probar que había un clima de persecución contra la Iglesia.

-La cuestión de fondo era si en un país católico era posible una persecución contra la Iglesia.-Personalmente, realizamos investigaciones históricas para demostrar ante la Congregación para la Causa de los Santos, con documentación real, que había habido un asesinato por odio a la fe.

»Mientras tanto, se disolvió la objeción de errores sociales y se demostró que Romero quería aplicar la doctrina social de la Iglesia y que no había en él nada que tuviera ninguna relación con el marxismo. Quiero subrayar que de este tema hablé muchas veces con el cardenal Ratzinger, Prefecto para la Defensa de la Fe, quien quedó favorablemente impresionado.

»Yo estaba en San Salvador el 24 de marzo de 2005, para conmemorar el XXV aniversario de la muerte de Romero, y regresé ese día a Roma porque se estaba muriendo el papa Juan Pablo II. Fue elegido el papa Benedicto, y en su viaje en Brasil en 2007 habló muy bien de Romero.

»Sin embargo, todavía los opositores, siempre muy determinados, convencieron a los responsables en Roma de que suspendieran la causa por motivo de oportunidad, porque Romero aún podía ser instrumentalizado por la izquierda y podía dividir al país. Yo no me detuve y apoyé la viabilidad del proceso y seguí pidiendo que el proceso continuará su camino. Al papa le correspondía decidir. Esa fue mi posición.

-Usted se refiere a los opositores, ¿habla de los opositores dentro de la Iglesia?-Parte de la curia, parte del episcopado. Romero se había convertido en una personalidad universal que también tenía oposición entre personalidades católicas de América Latina, en el Consejo Episcopal de América Latina. Es decir, había oposición entre miembros de la curia y de la Iglesia, sea salvadoreña o latinoamericana. Lo importante de parte del postulador era promover a través de estudios históricos y científicos la vida e historia de Romero. Cuanto más estudiábamos aparecía más evidente que Romero no estaba inspirado en la ideología marxista, sino solo en el Evangelio y los documentos del magisterio. Cuando lo interpelaron sobre la teología de la liberación, Romero contestó: sí, soy de la teología de la liberación de Pablo VI, no de otra.

»Quisiera decir que muchas veces tuve temor de que la causa no hubiera seguido adelante. En algún momento me pareció realmente imposible.

-¿Cuáles fueron los momentos más duros en el proceso?
-Fue en los últimos años, porque no lograba comprender cómo resolver las objeciones. Decir que aún no es oportuno era una afirmación abstracta. Eso ocurrió en 2007 o 2008. Me sentía en arenas movedizas; no lograba encontrar un punto sólido de apoyo hasta que fui nombrado por el papa Benedicto presidente del Pontificio Consejo para la Familia.

»Mientras tanto seguíamos haciendo investigaciones históricas para defender la tesis sobre el martirio, que a mí me parecía inatacable. Presento un ejemplo: Romero, decían los opositores, fue asesinado por motivos políticos, por lo tanto no es mártir; escogió una parte en el conflicto y pagó las consecuencias.

»Yo sostuve que no es así: en realidad, Romero, según resulta de la documentación, fue asesinado no por motivos inmediatamente políticos sino por seguir a una Iglesia tal como había salido del Vaticano II, y como la había vivido el episcopado latinoamericano, con una opción preferencial por los pobres. Efectivamente, fueron asesinados muchos sacerdotes, como Rutilio Grande, catequistas, religiosos.

»Y en su misma muerte hay un valor simbólico enorme: no fue asesinado en su casa o en el carro mientras manejaba en un atentado; fue asesinado mientras estaba celebrando la misa. Esto demuestra el aspecto desacralizador de quienes lo habían matado; el desprecio por lo sagrado.

»El 20 de diciembre de 2012, en mi primera audiencia con el papa Benedicto, siendo yo presidente del Pontificio Consejo de la Familia, le pedí que el proceso de Monseñor Romero siguiera su ruta ordinaria, que yo no quería ningún privilegio; y que yo pedía solamente que el proceso fuese llevado adelante en honor a la verdad, cualquiera que fuese. Yo estaba convencido de que habíamos llegado a la conclusión secundada por la intención del martirio. 

»En esta oportunidad, el papa Benedicto me dijo: el proceso retomará su camino; pasó entonces de la Congregación de la Doctrina de la Fe, donde había sido bloqueado, a la Congregación para las Causas de los Santos. Luego ocurrió la elección del papa Francisco. Debo decir que fue grande su acogida a esta perspectiva.

»Tengo que decir que el testimonio de Monseñor Romero es el testimonio de un creyente, de un hombre de Dios, de un hombre de la Iglesia que escogió dar su vida por los más débiles y los más pobres. He estado siempre muy impresionado durante estos largos años, desde que soy postulador, por la fama de santidad que tiene Monseñor Romero en cualquier parte del mundo.

-¿Qué significa para El Salvador de hoy la beatificación de Monseñor Óscar Arnulfo Romero?-Hoy creo que Romero es el santo de todo El Salvador. Han pasado muchos años desde entonces, y El Salvador ha vivido momentos muy difíciles, y hoy puede encontrar nuevamente en Monseñor Romero al hijo más ilustre y al más robusto sostenedor de todo el pueblo de El Salvador. Romero nunca ha odiado a nadie, ni siquiera a sus opositores; al contrario, a través de la elección de los más pobres, Romero quería un El Salvador más justo, más atento a sus hijos más necesitados. Un país que no ama, que no está atento de sus hijos más necesitados es como la familia en que el padre y la madre se desinteresan de sus hijos más necesitados.

»Hoy Romero es aun más que todo esto. No solo El Salvador tiene nuevos problemas con respecto al pasado, pienso por ejemplo en las maras; el mundo también ha cambiado: si pensamos en lo que está ocurriendo entre Estados Unidos y Cuba ha caído toda la polarización del pasado, de la que Romero también fue víctima. Y además el mundo entero está viviendo momentos dramáticos en relación con el terrorismo. Romero hoy representa, ya que es una personalidad conocida entre los creyentes, un testimonio que se opone a quienes piensan que la violencia ganará. Monseñor Romero dice que la vida nunca puede ser tomada, solo ofrecida.

»Y hago una última consideración de la actualidad de Romero en este momento, y es para mí la cosa más providencialmente clara: Romero tenía que ser beatificado bajo el pontificado del primer papa latinoamericano. Hoy me puedo explicar en profundidad el porqué de tantos atrasos: Dios esperaba al papa Francisco. Dios ha escrito esta página con las líneas torcidas de los opositores. Si pudiera decirlo con una broma irreverente, el papa Francisco necesitaba también de alguien que lo apoyara en el paraíso, porque Romero vivió plenamente la afirmación del papa Francisco: una Iglesia pobre para los pobres.

-¿Qué sigue en el proceso de beatificación?
-La beatificación ocurrirá muy pronto y será en San Salvador. La celebración será presidida por el Cardenal Angelo Amato, porque el papa preside solo canonizaciones. Una decisión con el arzobispo es el inicio de la beatificación del padre Rutilio Grande, porque, según mi parecer, con el de Romero son dos testimonios que van unidos con una sensibilidad evangélica, no política.

-¿Cuál es el camino a la santidad?
-Seguramente el proceso para la canonización proseguirá y para eso se requiere la presencia de un milagro. En este sentido mi deseo es que la oración y la intercesión a través de Monseñor Romero puedan llevar a la realización del milagro que seguramente llevará a Monseñor Romero de beato a santo. Es por eso que me siento muy feliz y cercano al pueblo de El Salvador, porque hoy de uno de los más pequeños países del mundo llega un mensaje central para la vida de toda la humanidad.